Al Servizio di Neuropsichiatria Infantile vedo spesso genitori preoccupati dagli esiti dei diversi controlli a cui viene sottoposto il figlio, che la maggior parte delle volte si trova lì o per problemi comportamentali o per difficoltà scolastiche.
Questa preoccupazione, per quanto naturale, spesso si radica in una scarsa consapevolezza rispetto ai disturbi, ai test per diagnosticarli, e in generale verso tutto l'iter psicodiagnostico.
Compito dello psicologo dovrebbe essere il favorire questa presa di consapevolezza, offrire informazioni chiare e precise sui test utilizzati, spiegare cosa significhi davvero una diagnosi di “disturbo da deficit dell'attenzione”, o “disturbo dell'apprendimento”. Il rischio, sennò, è che la diagnosi non solo non aiuti il bambino, ma anzi agisca come stigma, come indicatore che il figlio “non è normale”, “non è come tutti gli altri”. E che questo stigma, come prevedibile, finisca per accompagnarsi ad un senso di inadeguatezza del minore, alla convinzione di chi lo ha cresciuto di essere stati pessimi genitori, e così via.
La diagnosi dovrebbe invece avere come obiettivo e motivo d'esistere solo il bene del bambino, aiutarlo a sviluppare le sue potenzialità, ad attivare le risorse, a vivere la sua vita nel pieno rispetto delle sue forze e dei suoi limiti, a sentirsi normale e meravigliosamente diverso.