Chiediamo spesso consigli, e lo facciamo verso persone che pensiamo abbiano una maggior conoscenza di noi rispetto ad un determinato argomento. Tendiamo quindi a dar per scontato che il consiglio sia cosa buona e giusta, e sicuramente in alcuni casi un buon consiglio può esserci stato di grande aiuto. E' ormai entrata nell'immaginario comune l'idea dello psicologo che "demonizza" i consigli e si guarda bene dal darli. Questa immagine è spesso esagerata (ci sono metodologie dove i consigli, intesi come linee guida e direttive, sono largamente usati), ma ha un fondo di verità soprattutto per quegli approcci che si definiscono "centrati sulla persona", ovvero che si basano sulla convinzione che il cliente sia il maggior esperto di se stesso e che la soluzione ai suoi problemi non possa arrivare dall'esterno, ma sia già dentro di lui. Secondo quest'ottica, il consiglio (nella maggior parte dei casi) non solo non è utile ma può risultare anche dannoso. Anzitutto, perché il consiglio nasce sempre dalle esperienze, dai valori e dal modo di pensare di chi lo dà. Rappresenta la "soluzione personale" a cui si affiderebbe la persona che offre il consiglio. Ma siamo sicuri sia valida anche per chi lo riceve? In secondo luogo il consiglio "crea dipendenza", rimanda all'immagine che io non sono in grado di trovare una soluzione, ma dovrò sempre affidarmi al giudizio degli altri. Per questo motivo, la soluzione offerta dal consiglio non è ragionata, non nasce da una riflessione, da una consapevolezza: è una soluzione esterna, "pronta all'uso", e come tale non permette nessun apprendimento, nessuna crescita. Il consiglio rischia quindi di togliere potere e responsabilità alla persona: non è una soluzione che ho scelto io, ho fatto ciò che mi è stato detto, se "funzionerà" non sarà per miei meriti, se "fallirà" non sarà colpa mia. L'alternativa al consiglio è la presa di consapevolezza. È dire all'altro "io non so cosa sia meglio per te, ma insieme possiamo provare a capirlo".
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